“Risalire quel fiume era come viaggiare ai primordi del mondo, quando la vegetazione tumultuava sulla terra e alberi enormi ne erano i signori. Un fiume vuoto, un grande silenzio, una foresta impenetrabile.”
Joseph Conrad, Cuore di tenebra
Le fragranze ispirate dalla letteratura e da liberi pensatori sono ormai divenute un piccolo caso nella nicchia: Timothy Han e i suoi “performing scents“ che si “sfogliano“ sulla pelle ci portano sempre stimoli sensoriali che fanno della commistione fra intelletto e olfatto il loro punto di forza. Se a questo aggiungiamo l’assoluta naturalezza degli ingredienti e la maniacale attenzione alla loro scelta, non possiamo che attendere con trepidante entusiasmo di leggere con il naso Heart of Darkness, quinta rilettura liquida del creativo canadese, ispirata stavolta all’omonimo romanzo di Joseph Conrad del 1899.
Dopo il bestseller vincitore di numerosi premi She Came to Stay e il difficilissimo gelsomino sfiorito di The decay of the angel, Timothy Han scrive un saggio sui segreti mai svelati del cuore umano e le nefandezze compiute dal colonialismo europeo; come sempre, il profumo è “scritto” utilizzando note olfattive come parole e molecole come accordi musicali. Come plusvalenza, vi è da segnalare per quanto concerne il packaging l’apporto dell’artista britannico Nicola Hicks che lavora utilizzando plastica e creta e la collaborazione con la storica casa editrice inglese Penguin Classics
Chi abbia letto il romanzo di Joseph Conrad sa della prosa raffinata e controllata che suggerisce, instilla dubbi e timori più che spiegare; l’autore polacco eviscera, evocandolo con forti immagini e misteriose metafore, il tema del Male.
“Stare a guardare una costa mentre scivola via lungo la nave è come meditare su un enigma”, così racconta Marlow, protagonista e Io narrante del romanzo. E similmente, la fragranza inizia la rotta in una fitta acquosa foschia, in una “quiete animata” che non somiglia “in nulla e per nulla a una pace”. Le note ozoniche, solitamente cristalline, appaiono subito sporche, come insudiciate. Non è casuale la scelta di spennellare il vibrante galbano con il nero vischioso del catrame di betulla e il fuligginoso grigio della polvere di carbone. L’immedesimazione è subitanea: siamo lì, nella ciurma di marinai squattrinati e ubriaconi che ascolta con il moccio sotto al naso le deliranti confessioni di Marlow su ciò che ha visto navigando anni addietro sul fiume Congo. La nebbia densa si solidifica attorno a noi in un’ansa tragica e tetra.
L’incipit è selvatico, perfido e magnetico; una perfetta oggettivazione dell’ansia tossica e della paura umana che si mescolano ai vapori acquei del battello che naviga immerso nel nulla, nel cuore di un’Africa sconosciuta ai colonizzatori europei di metà Ottocento. Solo ogni tanto un sottile sfarfallio di luce penetra la bruma lasciando che un crepuscolo vi sopraggiunga scintillante: la triade fiorita di gelsomino, ylang e violetta africana mitigano l’atmosfera greve, ingentiliscono la catramosa ozonicità aprendoci per un attimo la visuale su una torreggiante Natura che giudica con occhio impietoso le nostre malefatte.
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